L’uomo percepisce la realtà che lo circonda attraverso cinque sensi ed è innegabile riconoscere alla vista un ruolo crescente nel formare quel ponte ideale fra mondo esterno e mondo interiore.
La preponderanza di questo senso però ha di fatto modificato una serie di equilibri comunicativi dei quali oggi osserviamo gli effetti senza riuscire a comprendere completamente le implicazioni.
Inizierei, in questo ragionamento, dal fatto che a partire dal ‘700 (ma soprattutto nel secolo successivo) lo sviluppo della stampa ha determinato il definitivo passaggio dalla cultura orale a quella alfabetica. La ragione che mi spinge a iniziare le mie osservazioni da questo dato di fatto dipende da un effetto che questo cambiamento ha prodotto: mentre la cultura orale, la parola, ha rappresentato per secoli un’energica superiorità, il sopravvento della cultura alfabetica ha generato significati mentali legati per lo più al “passato”.
Per certi aspetti, la stampa, accentua il senso dell’individualismo, della quantificazione, della meccanica. In pochi decenni, queste trasformazioni hanno avviato l’occidente nella direzione di ciò che noi oggi identifichiamo con il concetto di “era moderna”.
Negli ultimi due secoli appare agitarsi ed emergere tumultuosa una contrapposizione di fondo fra un già stabile razionalismo sensibile alle tecnologie e l’emersione di una neo coscienza irrazionale formatasi a iniziare dal Romanticismo.
Per queste ragioni entra nelle riflessioni degli studiosi del secondo dopoguerra l’idea che le tecnologie presenti nelle società siano in grado di influenzare la struttura mentale delle persone e, più in generale, la cultura persistente.
La svolta giunge nei primi anni ’60 quando il sociologo Marshall McLuhan pubblica “Gli strumenti del comunicare” (Understanding media: the extensions of man). Se la tecnologia della comunicazione si fa sempre più importante è necessario comprendere meglio la funzione dei media (a prescindere dai contenuti che questi veicolano), attraverso dei criteri strutturali sui quali si organizza la comunicazione stessa. Nel 1964 entra, nel lessico degli studiosi, l’assioma “il medium è il messaggio” che può essere chiarito partendo dal concetto secondo il quale il vero messaggio che ogni medium trasmette è costituito dalla natura del medium medesimo. Il secondo punto della nostra riflessione incontra il pensiero del filosofo polacco contemporaneo Zygmunt Bauman il quale esplora, attraverso una metafora molto energica, le caratteristiche dell’epoca postmoderna che stiamo attraversando.
Egli sostiene che mentre nell’età moderna tutto era definibile come una solida costruzione, una fase storica entro la quale ogni questione principale era votata a dar vita a un’identità specifica affinché si stabilizzi nella cultura corrente mentre nel postmodernismo ogni aspetto della vita può venir plasmato artificialmente. Egli coniuga questo rimodellamento continuo con l’espressione “liquido”. Il passo verso la “società liquida”, a qual punto, si dimostrò quasi immediato. Vale la pena ricordare anche altre intuizioni sull’argomento: “la narrativa postmodernista si caratterizza per il disordine temporale, il disprezzo della narrazione lineare, la commistione delle forme e la sperimentazione nel linguaggio”- Barry Lewis, 2001.
Baumann ritiene che nella società liquida non esista più lo spazio; esso è sostituito dal “luogo” dotato della capacità di creare un significato dall’esperienza, dalla definizione di ambito e perimetro locale. “Quando lo spazio cessa di essere significante cessa conseguentemente di essere luogo, non definisce più, dunque, né ambiti né dimensioni locali, diventando mero spazio” – Z.B. La fotografia sta attraversando questa tempesta sociale e culturale, la rete ha già completamente modificato l’intero sistema delle relazioni andando a interferire in modo variabile nei gruppi di individui che la utilizzano. Solo 15 anni fa i baby boomers (persone nate fra il 1945 e il 1964) e la generazione X (1965 – 1980) utilizzavano la rete traslando processi e atteggiamenti dalla vita reale. Ma da quando i Millennials (> 1980) si sono accorti che potevano sfruttare in modo diverso le neotecnologie, gli operatori della rete hanno cambiato strategia. L’avvento del Web 2.0 (prima apparizione nel 2004) ha accelerato l’insieme dei cambiamenti. La fotografia ha rapidamente sfruttato direttamente (pubblicazione) e indirettamente (comunicazione) i nuovi “media”.
Basta pensare alla spaventosa proliferazione di fotografie generate e riversate negli ormai classici social network, o nel più recente sistema di microblogging (Twitter) fino a giungere a piattaforme quasi completamente image oriented come Instagram per comprendere come l’immagine stia percorrendo strade diverse, con linguaggi e prospettive temporali in costante cambiamento. Se la teoria di McLuhan è corretta (“il medium è il messaggio”) vuol dire che tutto ciò che transita attraverso diversi sistemi di comunicazione e fruizione forma oggi ambiti indipendenti nei quali lo stesso utilizzo non è confrontabile con gli altri. Il concetto che noi fotografi abbiamo di “qualità” dell’immagine è stato intensamente messo in discussione dalla presenza delle fotocamere nei moderni smartphone e i numeri di coloro che possono raggiungere e visualizzare album fotografici e singole immagini attraverso la rete è talmente ampio da suscitare altre riflessioni.
La viralità della rete non è sempre sensibile alla qualità delle immagini o alla riconoscibilità del linguaggio e cultura dei contenuti, anzi, ma certamente stupisce come autori provenienti da esperienze molto diverse possono vantare decine di migliaia di “followers” con livelli di gradimento impensabili per coloro che utilizzano ancora sistemi tradizionali o moderatamente ibridi. Ma è proprio il media che indica nuove vie e nuovi mix. Le esposizioni di immagini stampate da scatti pubblicati tramite il servizio Instagram rappresentano una ulteriore dimostrazione di come non sia più possibile fermare la proliferazione e il metamorfismo di queste forme espressive. Se quindi è un bene stimolare questi passaggi e cambiamenti è opportuno manifestare preoccupazione per il come viene percepito l’insieme delle azioni che formano il passaggio dal “vedere” al “formare” l’immagine.
Se la visione di Baumann è quindi verificabile e dimostrabile vuol dire che l’effimero agire sull’immagine che tutti constatiamo nell’alveo dell’ubiquitus digitale nel quale viviamo sembra non avere più un passato e, purtroppo, neanche un futuro. Tutto nasce e si esaurisce in un diario, in una “timeline” dinamica sempre più veloce.
TULLIO FRAGIACOMO
(tullio.fragiacomo@outlook.com – @tfragiac – FB)
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