No Selfie, please!!

Editoriale: Trieste Photo News di Gennaio / Febbraio 2014

Lo sapete già?
“Selfie” è un termine recentemente  aggiunto alla Oxford English Dictionary.

Letteralmente  si può tradurre in qualcosa di simile ad autoscatto ma,  come ricorda Gianluigi Colin, in realtà rimanda  specificatamente alle riprese fatte a distanza di braccio  con un telefonino o molto più spesso con uno  smartphone. Se diamo una scorsa alle immagini  caricate su siti quali Facebook troviamo tonnellate di  esempi di selfie.

È diventata una mania, una ossessiva  auto rappresentazione ed auto celebrazione nei  dettagli marginali del proprio corpo, occhi, bocche,  smorfie, piedi, o documentazione di quello che  quotidianamente incontriamo dalla foto del piatto in  ristorante o durante la colazione mattutina. L’immagine  condivisa in rete diventa poi patrimonio collettivo e  quindi assurge a prova della propria esistenza sociale.  “Selfie ergo sum” mi viene da dire, il Selfie omologa  l’esistenza mediatica del singolo. Mi viene in mente  una analogia con quanto ho constatato in Sud America  dove il poter disporre di una carta di credito, le famose  “tarjetas”, facevano di un senza nome una persona,  creavano una identità.

A giudicare da quante di queste ritraggano i nostri  fotografi assieme a personaggi noti, verrebbe da  pensare che possano rappresentare nuove forme di  autografo, ancora più probanti dell’avvenuto incontro.  Quell’immagine finita online il 30 agosto con Papa  Francesco accanto ai tre scout piacentini, quel Papa  intimidito in un angolo della foto, quei ragazzi che  sorridono magari gongolandosi per i commenti che ne  sarebbero derivati sui profili “Facebook” esprimono una  deriva autoreferenziale apparentemente incontenibile.  Certamente gli smartphone costituiscono per un 72%  dei casi (dati 2012) l’unica macchina fotografica e  quindi hanno l’indubbio merito di avvicinare molte  nuove persone alla fotografia, un po’ come nel ‘900 è  avvenuto con il fenomeno Kodak Brownie venduta in  numero superiore ad un milione di pezzi in pochi anni,  rappresentando un contributo fondamentale alla  popolarizzazione della fotografia. I numeri oggi sono  diversi, parliamo di miliardi di foto caricate sui social  networks.
Dati del novembre 2013 parlano di 350  milioni di foto caricate al giorno. Per capire cosa  rappresenti questo numero ricordo solamente che  l’istituto del National Geographic ha raccolto in 125  anni di attività 11 milioni e mezzo di foto, di cui ha  pubblicato solamente una parte.  Solo autoscatti quindi? No, alle volte queste foto  possono permettere scoperte scientifiche come quella  foto di un insetto scattata in un parco a Kuala Lumpur e  postata su Flickr che poi verrà scoperto da un  entomologo americano che si trattava di una nuova  specie battezzata Semachrysa jade.

Insolito l’uso pure  delle foto del cibo presente nel piatto  (http://www.giveyourcalories.org/) che stimano, sulla  base dell’immagine, le calorie contenute e, stimolando  un senso di colpa, sollecitano una donazione  proporzionale all’eccesso calorico da destinarsi ai  poveri o almeno così lì affermano o fanno credere.  Nokia ha commissionato a Redshift Research di  tracciare l’identikit degli usi fotografici degli utenti  europei di smartphone per capire quando e cosa  catturano con il proprio dispositivo.

Gli Italiani in vetta,  veri amanti delle immagini. Vengono immortalati gli  istanti delle vacanze, i giorni trascorsi con la famiglia e  a casa con gli amici. Le foto più importanti sembra  siano quelle fatte ai figli (52%) e al partner (53%), ma  non mancano dati che rivelano un’indole diversa: il  32% conserva anche le foto degli ex e il 54% confessa  di avere scattato almeno una foto per mettere in  imbarazzo qualcuno, anche amici o parenti. Per dirla  come Marco Morello su Panorama.it, “a una festa dove  l’alcol scorreva senza fine e vestiti e inibizioni di colpo  son volati via, tra un’effusione e l’altra in camera da  letto, persino per strada o tra le mura domestiche. La  vittima, infatti, è un amico nel 24 per cento dei casi, un  familiare nel 16 per cento (alla faccia dell’armonia e  dell’amore puro per i congiunti di cui sopra), il partner  nel 14 per cento, un perfetto straniero nel 4 per cento”.

La grande diffusione degli smartphone porta a rendere  statisticamente molto probabile la presenza di un  fotografo dilettante in concomitanza con eventi di  interesse di cronaca creando non pochi limiti all’attività  di quelli professionali attivi nel reportage. La diffusione  dei citizen journalism o fotogiornalismo partecipativo è  stato la bestia nera per molti fotogiornalisti  professionisti. I professionisti si sono sia adattati all’uso  molto più discreto degli smarphone rispetto dalle  invasive reflex; rispettivamente hanno cominciato a  postare sugli stessi social network le loro opere e la  differenza non ha tardato ad emergere ma sicuramente  ha cambiato gli standard. Esempi non mancano. In  occasione dell’uragano Sandy del 2012 la rivista Time  ha affidato il suo feed di Instagram a cinque fotografi.  Famosa la foto di Enjamin Lowy di Coney Island. Il  fotografo di Magnum Michael Christopher Brown lavora  quasi esclusivamente con l’iPhone e con le sue app, in  particolare Hipstamatic. E non usa questo strumento  per fare foto di diletto o per rendicontare quanto  avviene dietro le quinte del suo lavoro. Michel fa  reportage vero e proprio, nudo e crudo; realizza interi  servizi fotogiornalistici di grande qualità e attualità,  anche su temi di forte impatto come la guerra, con  l’uso dell’iPhone.

L’uso dei filtri, quali Instagram o  Hipstamatic, a scopo giornalistico è etico? Ma questo è  ancora un altro tema.
In merito all’uso dei filtri, dei  formati e del linguaggio delle foto caricate nei social  torneremo presto a parlarne.
Per ora un Anno Nuovo a  tutti e… tante buone foto.
No Selfie, please!

PAOLO PITACCO

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