Lo sapete già?
“Selfie” è un termine recentemente aggiunto alla Oxford English Dictionary.
Letteralmente si può tradurre in qualcosa di simile ad autoscatto ma, come ricorda Gianluigi Colin, in realtà rimanda specificatamente alle riprese fatte a distanza di braccio con un telefonino o molto più spesso con uno smartphone. Se diamo una scorsa alle immagini caricate su siti quali Facebook troviamo tonnellate di esempi di selfie.
È diventata una mania, una ossessiva auto rappresentazione ed auto celebrazione nei dettagli marginali del proprio corpo, occhi, bocche, smorfie, piedi, o documentazione di quello che quotidianamente incontriamo dalla foto del piatto in ristorante o durante la colazione mattutina. L’immagine condivisa in rete diventa poi patrimonio collettivo e quindi assurge a prova della propria esistenza sociale. “Selfie ergo sum” mi viene da dire, il Selfie omologa l’esistenza mediatica del singolo. Mi viene in mente una analogia con quanto ho constatato in Sud America dove il poter disporre di una carta di credito, le famose “tarjetas”, facevano di un senza nome una persona, creavano una identità.
A giudicare da quante di queste ritraggano i nostri fotografi assieme a personaggi noti, verrebbe da pensare che possano rappresentare nuove forme di autografo, ancora più probanti dell’avvenuto incontro. Quell’immagine finita online il 30 agosto con Papa Francesco accanto ai tre scout piacentini, quel Papa intimidito in un angolo della foto, quei ragazzi che sorridono magari gongolandosi per i commenti che ne sarebbero derivati sui profili “Facebook” esprimono una deriva autoreferenziale apparentemente incontenibile. Certamente gli smartphone costituiscono per un 72% dei casi (dati 2012) l’unica macchina fotografica e quindi hanno l’indubbio merito di avvicinare molte nuove persone alla fotografia, un po’ come nel ‘900 è avvenuto con il fenomeno Kodak Brownie venduta in numero superiore ad un milione di pezzi in pochi anni, rappresentando un contributo fondamentale alla popolarizzazione della fotografia. I numeri oggi sono diversi, parliamo di miliardi di foto caricate sui social networks.
Dati del novembre 2013 parlano di 350 milioni di foto caricate al giorno. Per capire cosa rappresenti questo numero ricordo solamente che l’istituto del National Geographic ha raccolto in 125 anni di attività 11 milioni e mezzo di foto, di cui ha pubblicato solamente una parte. Solo autoscatti quindi? No, alle volte queste foto possono permettere scoperte scientifiche come quella foto di un insetto scattata in un parco a Kuala Lumpur e postata su Flickr che poi verrà scoperto da un entomologo americano che si trattava di una nuova specie battezzata Semachrysa jade.
Insolito l’uso pure delle foto del cibo presente nel piatto (http://www.giveyourcalories.org/) che stimano, sulla base dell’immagine, le calorie contenute e, stimolando un senso di colpa, sollecitano una donazione proporzionale all’eccesso calorico da destinarsi ai poveri o almeno così lì affermano o fanno credere. Nokia ha commissionato a Redshift Research di tracciare l’identikit degli usi fotografici degli utenti europei di smartphone per capire quando e cosa catturano con il proprio dispositivo.
Gli Italiani in vetta, veri amanti delle immagini. Vengono immortalati gli istanti delle vacanze, i giorni trascorsi con la famiglia e a casa con gli amici. Le foto più importanti sembra siano quelle fatte ai figli (52%) e al partner (53%), ma non mancano dati che rivelano un’indole diversa: il 32% conserva anche le foto degli ex e il 54% confessa di avere scattato almeno una foto per mettere in imbarazzo qualcuno, anche amici o parenti. Per dirla come Marco Morello su Panorama.it, “a una festa dove l’alcol scorreva senza fine e vestiti e inibizioni di colpo son volati via, tra un’effusione e l’altra in camera da letto, persino per strada o tra le mura domestiche. La vittima, infatti, è un amico nel 24 per cento dei casi, un familiare nel 16 per cento (alla faccia dell’armonia e dell’amore puro per i congiunti di cui sopra), il partner nel 14 per cento, un perfetto straniero nel 4 per cento”.
La grande diffusione degli smartphone porta a rendere statisticamente molto probabile la presenza di un fotografo dilettante in concomitanza con eventi di interesse di cronaca creando non pochi limiti all’attività di quelli professionali attivi nel reportage. La diffusione dei citizen journalism o fotogiornalismo partecipativo è stato la bestia nera per molti fotogiornalisti professionisti. I professionisti si sono sia adattati all’uso molto più discreto degli smarphone rispetto dalle invasive reflex; rispettivamente hanno cominciato a postare sugli stessi social network le loro opere e la differenza non ha tardato ad emergere ma sicuramente ha cambiato gli standard. Esempi non mancano. In occasione dell’uragano Sandy del 2012 la rivista Time ha affidato il suo feed di Instagram a cinque fotografi. Famosa la foto di Enjamin Lowy di Coney Island. Il fotografo di Magnum Michael Christopher Brown lavora quasi esclusivamente con l’iPhone e con le sue app, in particolare Hipstamatic. E non usa questo strumento per fare foto di diletto o per rendicontare quanto avviene dietro le quinte del suo lavoro. Michel fa reportage vero e proprio, nudo e crudo; realizza interi servizi fotogiornalistici di grande qualità e attualità, anche su temi di forte impatto come la guerra, con l’uso dell’iPhone.
L’uso dei filtri, quali Instagram o Hipstamatic, a scopo giornalistico è etico? Ma questo è ancora un altro tema.
In merito all’uso dei filtri, dei formati e del linguaggio delle foto caricate nei social torneremo presto a parlarne.
Per ora un Anno Nuovo a tutti e… tante buone foto.
No Selfie, please!
PAOLO PITACCO
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